Bonaveri, l'anarcopoeta dei suoni

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Abbiamo incontrato Germano Bonaveri, il cantautore bolognese che dopo aver pubblicato nel 2010 il suo secondo disco Citta' Invisibili ispirato ai racconti di Italo Calvino, che sta portando ancora in tour per l'Italia, si prepara a incidere il terzo.
 
 

Ho visto nomi eccellenti tra i collaboratori del disco come Mario Arcari ai fiati…

Mario è amico da una vita ormai, è genovese, l’ho conosciuto attraverso Beppe Quirici, nel prossimo disco ci sarà anche Marco Fadda (percussionista che suona in duo con Billy Cobham)…


”Città invisibili” è dedicato a Beppe Quirici (scomparso il 31 marzo 2009)…

Sì, anche perché per me è uno dei più grandi artisti italiani, uno degli “invisibili” di cui si parla nel disco, io lo ricordo a ogni concerto e non solo quando si dà la targa a qualcuno, questo disco sarebbe stato il suo ultimo lavoro da produttore, era un bassista strepitoso, non di quelli vistosi ma può essere considerato il Clapton del basso, e non è una bestemmia dirlo, suona il basso in “Magnifico”…

Stai preparando un nuovo disco sempre a tema come quest’ultimo?


Sì è un concept sul tarocco ma ne parlerò quando uscirà, anche perché le canzoni le ho scritte ma sono ancora abbozzate, per me il disco è un lavoro serio, lo farò con Maurizio Biancani, un grande fonico…

Con cui hai registrato anche Citta’ Invisibili, come hai lavorato in studio?


Anche “Città Invisibili” è stato fatto a Bologna, se non hai bisogno di troppo trucco bastano due microfoni e una stanza, a parte le batterie che fai in studio c’è poco editing, a un certo punto si sente pure uno che bussa dal vetro, il disco serve a rappresentare chi lo ha concepito, pensato e chi ci ha lavorato, secondo me deve servire a quello, anche perché poi quello che c’è nel disco lo devi sostenere, già la foto di copertina non è ritoccata ma sembro un figo pazzesco, pensa se mi avessero fatto anche magro (ride)…

Come hai iniziato a fare il cantautore?

Una notte dopo un brutto incidente l’ho passata a casa mia coperto di ghiaccio con il gesso, e una zanzara mi ha punto l’alluce, e siccome il dolore è un’abitudine e il prurito è una novità non riuscivo a dormire per colpa del prurito e tutta la notte mi son cantato nella testa quella canzone di Guccini (“Canzone quasi d’amore”, ndr.) che fa: “fingo d'aver capito che vivere è incontrarsi, aver sonno, appetito, far dei figli, mangiare, bere, leggere, amare... grattarsi!”, mi son svegliato, ho chiuso con l’attività che facevo prima (fino a 30 anni ero un consulente, libero professionista), ho lasciato tutto e ho deciso di fare il cantautore…

Una scelta coraggiosa di questi tempi…

No, tanto siamo tutti disoccupati e clandestini, solo che la gente non lo sa ancora, la ricchezza è spendere qualcosa in meno di quello che hai, e io ero uno che guadagnava bene prima, ho speso tutto e ho lasciato tutto, si può fare, ormai è dal 2001 che faccio il cantautore, nel 1989-90 Guccini mi presentò Renzo Fantini (scomparso nel 2010) e avrebbe voluto che mi producesse, la cosa è rimasta in stand-by per un anno poi…

Il titolo “Citta’ Invisibili” è ispirato ai racconti di Italo Calvino, perché hai preso spunto da lui?

Calvino intanto è un grande funambolo della metafisica, se lo dovessi definire, e nelle “Città Invisibili” c’è la parte finale che io recito ad ogni concerto (anche Marco Alemanno la recita nel disco in “Dialogo”): “L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”, ed è proprio quello che è in antitesi ai nostri tempi, dove lo spazio non si dà più a niente, se non sei visibile non esisti, allora quel testo delle Città Invisibili vuole partire da un racconto, nella canzone “Le città invisibili” mi soffermo sulla vita di Calvino, Villa Meridiana, l’esperienza partigiana, ma in realtà bisognerebbe cominciare ad occuparsi di ciascuno di noi, quindi degli invisibili, io sono due dischi che cerco di parlare di loro, e presto sono convinto avranno voce…

Anche in “Magnifico” quindi…

In modo diverso sì, “Magnifico” era un disco più di invettiva, era un po’ più “incazzato”, qui l’incazzatura è diventata rabbia, però una rabbia più maturata, determinata, c’è più sostanza che impulsività, nel prossimo ci sarà proposta invece…

Hai già un titolo per il prossimo disco?

No so solo che affronterò la tematica del tarocco, il prossimo ancora sarà sui miti greci, in questo invece mi interessava parlare di tutti quelli che non hanno voce…

Nelle Città Invisibili ci può essere un’affinità con le "Anime Salve" di De André?

Se dovessi trovare un’affinità la andrei a cercare in “O que será” di Chico Buarque, perché era quel popolo degli invisibili che abitava nelle favelas, anche se l’invisibilità nostra è diversa, è la vecchiaia che viene nascosta, a cominciare dai dischi, è questo l’atteggiamento, ai tempi della Grecia il vecchio era visto con un senso di rispetto e di ammirazione, il comandamento “onora il padre e la madre” aveva un senso perché si viveva nelle tende e lo svelare era scoprire i genitori durante l’atto sessuale, quando la gente toglierà questo velo e si renderà conto della scarsa qualità che ci circonda forse comincerà a pretendere qualcosa di diverso e ci divertiremo un sacco, io penso che ci salverà il delirio dei semplici…

Sei ottimista…

No sono realista, perché di solito il cantautore è pessimista, leopardiano, io credo che proprio perché questo è l’atteggiamento globale adesso il cantautore deve diventare energico, propositivo è poco, si parlava prima de “Il mondo che vorrei”, se dovessi scriverla oggi la chiamerei “Il mondo che voglio”, io sono stanco di pensare che dev’essere tutto al condizionale, comincio a pretendere un cambiamento, bisogna cominciare a imparare a parlare, riscoprire le parole, non tanto la forma quanto la sostanza, già con Beppe Quirici facemmo un lavoro togliendo qualche parola un po’ troppo difficile cercando delle soluzioni…

Lui collaborava anche ai testi?

No però quando arrangiavi i dischi con Beppe il discorso era di che colore sono i muri, se c’erano i mobili in quella stanza, se la macchina passa oppure no, allora si andava a discutere anche il significato, vantandosi per un attimo di cercare di fare cultura, uno ci mette quello che sa in un disco, quindi la sua cultura, nel momento in cui sai che devi fare qualcosa di “culturale” se capita che si debba prendere anche il vocabolario non mi dispiace, ormai dalla televisione alla radio si sentono quelle 70-80 parole, esistono anche “pervicace”, “monade”, ecc. lo leggi e dici ho imparato una parola, ecco la funzione della cultura, il problema è che spesso chi gestisce la cultura ha le gambe corte, se non sai spiegare il rosso a un cieco non farai mai il pittore, questi vogliono gestire i quadri, io sono ottimista e penso che la bellezza è soggettiva, l’estetica è oggettiva, a un certo punto ci sarà bisogno di bellezza anche qui da noi e le cose cambieranno, anche il vecchio potrà evitare di rifarsi la faccia, il clandestino verrà chiamato con un altro nome, sarà una persona senza documenti, che è scappata da una situazione, clandestino (”Clam Dies Tinus”) vuol dire “colui che odia la luce e trama nelle tenebre”, in Francia si chiamano “sans-papiers”, il nome è più bello…

Siamo tutti clandestini in un certo senso…


La maggior parte delle persone non se ne accorge e si diventa invisibili, anche perché il messaggio della televisione oggi anche dal punto di vista musicale qual è? avere delle trasmissioni per cui le guardi e dici “ci potrei essere anch’io!”, nel momento in cui il messaggio è “basta una botta di culo”, al resto ci pensa qualcun altro e ti impongono, è giusto che l’artista, il musicista o il pittore diventi un giullare alla corte dell’imperatore, il giullare fa il buffone perché altrimenti lo fanno fuori, non perché è un artista…

Ogni riferimento ai talent show è puramente casuale…

In un momento in cui è il capitalismo che comanda il “talent show” è una forma di finto bolscevichismo della musica, cioè sembra che siamo capaci tutti, siamo tutti bravi, al punto che anche nella politica non serve più nessuna preparazione, in nessun campo, basta saper spingere un bottone, e nel momento in cui non sei più un corpo ma sei un organismo, non sei più una persona, quando ti si rompe il pollice ne prendono un altro, io vorrei vedere oggi gestire un De André, che avrebbe un potere che è quello del suo carisma, gli altri si cambiano, abbiamo una progenie di artisti che ci sono ma se non ci sono ne prendono un altro…

Forse un De André non supererebbe nemmeno le selezioni di un talent show…

Sì poi con i forse, con i se e con i ma non si fa niente però il livello è già saturo, io da un politico che mi rappresenta nel mondo dovrei sentir parlare un grande italiano, invece sento persone che sbagliano le vocali, non lo posso accettare. Io qualsiasi mestiere ho fatto nella mia vita mi sono preparato prima, per fare un disco ci vuole un anno di lavoro, scrivo, mi confronto, ma anche per fare il metalmeccanico, adesso bisogna essere conformi, efficienti, l’efficienza ha sostituito la parte creativa di qualsiasi attività, io facevo il consulente tecnico, quando ho smesso per fare il cantautore nelle officine non c’era più quella figura lì, il lavoro è ormai parcellizzato e disumanizzato, la tecnologia favorisce questa cosa, e voi (giornalisti, ndr.) siete un’altra “razza” come i musicisti che aiuta perché quando una cosa è palesemente scandalosa ma vi tocca dire che è bella riuscite a dire che non è capita ma è un capolavoro, allora continuo a pensare che se la bellezza è soggettiva ci vuole solo che si cominci a dire che il Re è nudo, sarà una grande festa…

Poi ci sono delle cose che piacciono a un sacco di gente e ti chiedi pure il perché…

Noi viviamo d’immagini, adesso siamo bombardati e sottoposti a uno stress tale per cui non riusciamo neanche più a pensare in anticipo, il linguaggio è schizofrenico, non è mai sul presente, attinge dal passato e dal futuro, allora anche questo continuo bombardamento d’immagini ci fa essere sempre più schizofrenici, tutti abbiamo cinquemila amici e ne conosci uno, anche perché “amico” è una parola grossa, l’amico è quello che se a trecento chilometri di distanza hai bisogno ti viene a dare una mano…

Quanti amici hai su Facebook?

Sai che non lo so? Oggi c’è un mercato degli amici, l’effetto di questa cosa qui lo vedo nelle persone, sembra sempre che la gente viva in modo sfrenato, come se domani non sapessimo neanche se ci saremo, io che non sono un fan di Ligabue (che peraltro trovo molto bravo, io adoro Springsteeen) mi canto “A che ora è la fine del mondo?” (la cover dei R.E.M.) da almeno un mese a questa parte, sarà nel 2013 se proprio dovesse esserci, aveva ragione William Wallace in “Braveheart” quando diceva: “tutti devono morire, pochi vivono veramente”, ci stanno creando la paura perché qualcuno ci garantisca la sicurezza, all’origine di tutti i malesseri dell’uomo c’è la paura della morte che va a giustificare tutto il resto, l’automobile, l’affermazione, ecc., l’uomo si eleverebbe con l’accettazione della morte, quelli che ci comandano dovrebbero insegnarci a non avere paura invece siccome l’hanno capito ci insegnano ad avere paura, nascondere, celare, io penso che ci salverà il delirio dei semplici…

Tu come ti consideri, un semplice?

Io sono profondamente un metalmeccanico e partigiano, perché ogni essere umano ha un momento dove non è più importante il resto, senti il bisogno di fare la cosa giusta, e tutti ce l’abbiamo quel momento lì, e tutti l’abbiamo sperimentato, solo che le circostanze del quotidiano possono fare in modo che quel momento possa arrivare per tutti in una sola volta, e lì succedono le svolte epocali, chi ha già vissuto il momento in cui ha fatto la cosa giusta sa già che non succede niente, come la prima volta che ti butti in acqua e poi scopri che galleggi e ti tuffi di nuovo, chi ha già fatto la cosa giusta una volta è pronto a rifarla, non è importante neanche più che abbiano l’idea giusta, perché la cosa vincente è che abbiano l’idea, siamo in un mondo dove tutti hanno la risposta ma nessuno fa la domanda…per quello nel disco “Magnifico” dicevo esattamente delle cose mentre qui è tutto più nascosto “sotto 'l velame de li versi strani” come diceva il sommo poeta (Dante, “Inferno”, IX, ndr.), è lì al livello in cui uno vuole andare a cercare se ne ha voglia…

Dal 2007 di "Magnifico" al 2010 delle "Città Invisibili" sono passati solo tre anni…

Noi poi obiettivamente non facciamo mancare ai fans ogni tre mesi una canzone che non è nel disco, abbiamo regalato “Contro” sul web, la riscrittura di un mio vecchio pezzo del 2001 rifatto nel 2010, da poco è uscito “Scivola via” e ora stiamo preparando un altro regalo che è un pezzo di León Gieco (cantautore argentino, ndr.) dal titolo “Solo le pido a Dios”, una preghiera meravigliosa in cui chiede a Dio di non essere indifferente alla guerra, alla sofferenza…

Ti affascina molto il mondo sudamericano?

Sì mi affascina il mondo dei resistenti, noi abbiamo molto da imparare dai sudamericani, soprattutto dal punto di vista sindacale, capisco qualcosa di portoghese, lo spagnolo è affine, l’inglese me lo vado prima a leggere, il francese un po’ lo parlo ma penso che sia solo un fatto di moda e comunicazione, siamo noi che costruiamo l’intelletto sulle rovine dell’educazione e dell’emotività…

L’approccio che hai alle canzoni è molto letterario, che rapporto hai con la musica?

Prima mi arriva la suggestione, poi le lascio sedimentare, cerco di capire cosa mi è arrivato e cosa voglia dire e poi scrivo, strimpello con la chitarra e a quel punto chiamo i musicisti, ai quali piuttosto che dire “qui voglio i sette ottavi” gli dico che voglio che nevichi, a me interessa che chi suona nella testa abbia la suggestione che bisogna creare, uno deve sapere se quando chiude gli occhi vede la neve o il sole, se quello che sta dicendo una cosa è disperato o rabbioso, perché la canzone deve stare in piedi anche se non c’è la voce…

Sei più un “poeta dei suoni”?

Una volta mi hanno definito “anarcopoeta”, probabilmente son quello, però poeta è una parola impegnativa, è chiaro che fa molto piacere però...la meditazione è esser presenti a quello che si fa, allo stesso modo la poesia (come dice la canzone di Cocciante “tutto questo è poesia, sembra che non ci sia…”) è essere presenti a quello che si fa, se fai uno sciopero (ma anche un talent show) con la consapevolezza di farlo allora stai facendo poesia, se no stai facendo commercio, io non critico gli artisti ma il contesto, la considerazione e la mercificazione…

Com’è nata la collaborazione con Lucio Dalla che suona il clarinetto in “Controvento”?

La classica botta di fortuna, è passato da Maurizio Biancani (il fonico) che stava mixando “Controvento” e ha detto “bella ‘sta cosa, posso suonarci sopra?”, con Maurizio sono amici, io non lo conoscevo, a quel punto gli ho chiesto se Marco Alemanno voleva recitare un brano de “Le città invisibili”, a me piace recitare però volevo che ci fosse un’altra voce, e soprattutto Dalla che fa il bravo clarinettista e non quello che ti aspetteresti da lui, quindi anche atipico, ha un suono soffiato, come l’oboe di Arcari…

Chi ha curato gli arrangiamenti del disco?

Gli arrangiamenti sono miei insieme ad Antonello D’Urso (il mio chitarrista) che traduce in musica il mio linguaggio, delle volte io dico “voglio la neve”, le linee melodiche sono le mie, e poi di Luigi Bruno che è un pianista molto bravo con cui collaboro da dieci anni…

Quali sono i tuoi riferimenti principali?

I miei riferimenti poetici principali sono Carducci e Pessoa, come cantautori Guccini che per me è il più lucido come visione, di fianco (non troppo indietro) ci posiziono De André (più crudele) e Gaber, che se fosse vivo avrei voluto fosse il mio psicoterapeuta, solo che questo è il momento dei tributi esasperati, anch’io faccio De André ma sto cercando di rarefarlo un po’…

Con quale formazione stai girando in tour?

In questo momento il gruppo ha avuto una piccola trasformazione, è un trio di corde, un basso (Luca De Riso), e due chitarre (la mia e quella di Antonello D’Urso), però adesso è un periodo in cui mi piace mescolare, farò delle cose anche con Stefano Melone (tastierista di Fossati, De André, ecc.) e Marco Fadda, sto aspettando una collaborazione mondiale sul prossimo disco che se ci sarà non lo scriverò…