Ecco, se n'e' andato. E' successo un mese fa, avrei voluto mostrarmi a lui camminando senza il bastone che mi serve per incedere nelle quieti nebbie della mia sofferenza.
Avrei voluto potessimo parlarci. Avrei voluto potesse sapere. Mio padre: l'amico, l'altro me che mi ha visto crescere, il fratello con cui ho condiviso senza rumore molta di questa vita. Poche parole, solo l'intesa istintiva e misteriosa che lascia agli occhi, ad un gesto, all'intonazione della voce il compito di spiegare oltre cio' che ragionamento non sa' circoscrivere, il frutto di una paternita' vera, oltre il codice genetico od uno statuto di famiglia: quella persona che ora ritrovo avvolta da un velo impalpabile di ricordo, cosi' vicina a me ma cosi' irraggiungibile, e' mio padre. E' partito per un altrove lasciandomi una ultima, immensa lezione che ha lasciato un profondo solco nel gia' segnato terreno dell'esperienza: la dignita' del dolore. L'ho assistito nelle ultime notti, ho vegliato su di lui tra cuscini, bende, sonde e lamenti: l'ho osservato impotente dilaniato dal dolore che lo stava divorando, ho sofferto ogni attimo arrivando ad implorare per lui una fine subitanea, meno inumana di quella che stava consumandosi tra le mille pareti di quella minuscola stanza, ho stretto la sua mano, quella stessa enorme mano che ora si era trasformata in quella di un bambino, solo nodosa e tremante, disperata a cercare nel vuoto un appiglio sempre pero' protesa al cielo. "E' in coma vigile, non capisce e non sente nulla", ha detto l'infermiera mentre imparinava il catetere della flebo che pochi istanti prima dispensava in quelle immobili vene una dose velenosa e santa di morfina, quasi a narcotizzare anche me con quelle parole, quasi ad evitarmi il fastidioso tedio dell'altrui sofferenza. Un respiro ogni quaranta secondi. Un respiro come un grido. Un rantolo sordo ed una disperata, continua stretta della sua mano alla mia, che con un sorriso deturpato gli sussurravo "sono fiero di te". Ho continuato tutta la notte, inumidendogli le labbra con un batuffolo e pettinandolo , come non avevo mai fatto prima di allora. Come non avevo mai fatto, maledizione. ...maledizione, che io sia dannato. Voltarsi indietro, riguardarsi come in un coccio di cristallo magico che rimanda istantanee di una vita sempre troppo veloce e distratta, sempre immersa nelle acque dense e scure del quotidiano, le acque che ti costringono solo a nuotare per non andare giu' nel fondo dell' inesistenza tra queste consuetudini di tecnologiche necessita' superflue. Sono stato bambino, forse lo sono ancora mentre cerco di trattenere le lacrime per dare sfogo alle parole, per non lasciare che gli occhi si velino perdendo la possibilita' di scrivere. Io in lui, lui con me. Un pezzo di cio' che sono e' sparito per sempre mentre una parte immensa di lui giace accanto a me per raccontarmi e lasciarsi raccontare, per condividere oggi come allora le acque del nostro fiume. Pescavamo sempre assieme. Due minuscole molecole dell'universo che si perdevano ore in quel fluire, silenziose e complici tra i barbaglii che il sole tramontando si diverte a disegnare sulle acque. Tramonti rossi come il cuore, come il dolore, come l'amore. Ho mille stanze vuote dentro me. Ce ne sono alcune che non apro mai, che lascio ingiallire come fotografie in piena concupiscenza nella consapevolezza precisa di avere sepolto soprammobili idealizzati sotto le sabbie della memoria; altre che talvolta rivisito fosse solamente per arieggiarle, per riassaporare vecchi colori e profumi che la distrazione del solito fa' dimenticare. La stanza dove conservo i miei giochi di fanciullo, le partite a flipper "un tasto per uno" con lui, le infinite sfide a biliardo, le pescate assieme, il lavoro condiviso ... questa nuova stanza che improvvisamente e' sorta al centro del mio magma inquieto e' ora l'immensa concava culla di cio' che ero, di cio' che siamo. Accarezzo ricordi lasciando che il dolore mi travolga per riemergere in una solitudine nuova, silenziosa, piena di una dolce e terribile nostalgia e amore pieno di gratitudine: e' una necessita' che non voglio reprimere. Mi sento di passaggio, siamo di passaggio. Siamo come foglie aggrappate ad un ramo mentre l'autunno, all'orizzonte di una immensa vallata deserta, compare: il nostro albero, quello che crediamo unico e privilegiato su questo pianeta cosmico, lievemente vibra al soffio delle prime gelide folate notturne. Noi, disperatamente restie ad abbandonare cio' che crediamo la nostra sola ragion d'essere, foglia percio' essenza, unico abbellimento di nodose inutili appendici lignee, cerchiamo di procrastinare l'addio. Presunzione, illuminismo stolto e illusorio. Non siamo foglie, siamo albero. Siamo radice e nutrimento, siamo quella brezza. Siamo probabilmente solo una idea, nell'attimo in cui l'ipotesi diviene consapevolezza, missione compiuta. Lasciamo spazio ad altre idee, la nostra vita e' forse solo lo stato d'animo che sta nel mezzo tra tesi ed ipotesi. Io non so chi sono, pensando a mio padre scopro che pur essendo qui, parte di me e' gia' morta; sento che parte di me vive nelle persone che amo, parte di lui vive in me, esisto in tutte le cose che faccio con amore, lascio traccia di me anche in cio' che non amo. Sono ed esisto in quanto lascio scie. Sono una scia nel cielo, come le scie degli aerei che tanto mi affascinavano da bimbo, guardandole stupito mentre diventavano cielo. Sono cielo. Ed i suoi occhi... quegli occhi che nel letto d'ospedale erano sempre rivolti in su, roteando nel nulla a cercare qualcosa...quegli occhi che lucidi e profondi mi guardavano mentre gli dicevo "ti voglio bene" alla faccia di chi parlava di coma viglie... quei due cocci di mondo, il mio mondo ed il suo, che si chiusero solo nell'attimo in cui due mani nodose di bimbo mi raccolsero il capo stanco dopo una notte di veglia, sono due laghi presso le cui rive mi siedo ad ascoltare i suoni del mio passato, certo come sono che il tempo annichilisca su se stesso, sfumando i controni di cio' che e' stato con quelli di cio' che sara'. Di lui conservo la canna da pesca, una foto, una camicia... Lo osservo ora, quando il riposo notturno mi concede il sogno, mentre passeggia con mia madre, che mori' dieci anni or sono: in un altrove vicinissimo camminano mano nella mano sulle rive di un fiume, incontro ad un tramonto cosi' bello che io davvero non so piu' quando finisca la notte, e cominci il giorno. Con tutto l'amore che posso, tuo figlio Germano.