La piccola utilitaria percorre l'A14 nella calura assurda di un agosto vacanziero che affolla gli autogrill all'ora di pranzo. Il serpente metallico che pochi attimi prima procedeva lento ed ansimante, si e' smembrato in mille vertebre affamate di panini coca-cole hot-dog. Deserto.
"Casa mia e' un luogo comune... Come dire non ci sono piu' le stagioni , oppure si stava meglio quando si stava peggio e cosi' via. Anche la mia vita e' in fondo un luogo comune: uguale a tante, scorre tra Leopardiane rive sconfinate di dolore macchiate qua e la' da piccole oasi di felicita'. Ho un lavoro, una famiglia, tre figli, un cane. Anzi una cagna, ma preferisco definirla anonimamente "cane" perche' "cagna" reca in se' qualcosa di offensivo. E' l'importanza ed il peso delle parole, un po' come gente o persone. La gente e' quella fuori, anonima accozzaglia di esseri viventi che affolla autostrade vacanziere negli agosti che passo in casalinga quiete a godermi una citta' deserta. Definire le persone e' gia' piu' difficile. Chiamo persone i miei simili che soffrono, quando impantofolato guardo la sera il Tigi' due che mostra popoli alla deriva nel mare feroce della disperazione, persone sono gli amici del bar, che rispetto e stimo per un complesso di inferiorita' che nutro verso macchine potenti e vanterie di donne, persone insomma sono quelli che compatisco e quelli che temo, o invidio. Maledizione... a ben guardare la gente sono quelli come me, quelli irrilevanti, quelli inutili, quelli del metro' la mattina con le ascelle sudate anche se sei in pieno inverno. Il mio cane, dicevo: Stella. Un bellissimo schnautzer medio dal fulvo vello nero, il muso ornato da due baffoni deliziosi. Io e Stella ci vogliamo bene. La domenica, mentre la gente va a messa, andiamo insieme ai giardini a giocare, rotolandoci nell'erba delle aiuole noncuranti dei rischi. Si', perche' e' rischioso rotolarsi nell'erba: puoi rovinare la giornata spalmandoti su una merda di cane, rovinarti la settimana per un raffredore, rovinarti la vita per una maledetta siringa che i drogati, gente nel senso piu' dispregiativo del termine, lasciano li' apposta. Non voglio prendere l'AIDS. Gia' mi tocca l'INPS, e scusate se e' poco. Non sono mai andato con altre donne proprio per la paura di malattie strane. A dire il vero neppure le altre donne sono mai volute venire con me, so di non essere bellissimo. Sono intelligente e simpatico, questo si', ma le donne di oggi ti considerano solo se hai la macchinona, carisma e balle da raccontare. Proprio come la gente del bar. Quando mi sono sposato ero innamorato. Follemente. Conobbi Marta a 27 anni, lei ne aveva otto piu' di me. Prendevamo il metro' tutte le mattine, lei saliva tre fermate dopo la mia, occhi ancora anestetizzati e bocca orizzontale, senza alterazioni. Cominciammo ad amarci senza saperlo, dato che i nostri contatti erano limitati alla cortesia di un *Ciao* ogni mattina, salutandoci come naufraghi esiliati su un'isola deserta che vedono passare una nave in lontananza, un saluto cieco e sordo. A poco a poco cominciammo a scambiarci qualche parola, poi il mio invito a cena, gote rosse per l'inusuale emozione e ginocchia instabili, il suo assenso con le mani sudate per l'inaspettato appuntamento, la pizza con le acciughe e andiamo su da me? Grande. Mi sentivo come Stallone in Rocky uno, quando con la canotta indosso si appoggia allo stipite della porta mostrando tutto un groviglio inestricabile di nervi, muscoli, ingranaggerie varie. In effetti quella sera emulai goffamente quella posa, mostrando la camicia azzurrina resa blu notte sotto le ascelle da due estese macchie di emozionato sudore. Lei mi fisso', non negli occhi ma in quei due atolli accaldati, caratteristica di noi "gente". Quella notte facemmo l'amore. Me la ricordo ancora, piuttosto grassoccia, saltellarmi addosso afferrandomi per le bretelle della canottiera sussurrando *dai, dai...*. Io ero gia' sceso dal treno dell'amplesso qualche stazione prima, mentre lei, noncurante della mia consumata emozione, continuava imperterrita nella sua danza antica. Mi addormentai quasi subito, e continuai a farlo per tutte le sere a venire, innamorato di lei e della mia nuova condizione di uomo: avevo la ragazza. Al bar ero diventato schivo, il mio amore era cosi' diverso da quello delle persone che conoscevo laggiu': loro raccontavano di lunghi amplessi sfrenati e sfrontati, donne diverse, rapporti orali anali carnali porci schifosi vergognatevi mamma mia che invidia. Non mi interessano, l' amore e' sentimento non lussuria ma racconta ancora che mi interessa. Nacque il primo figlio, ci sposammo. Osvaldo. Bellissimo da neonato, ogni giorno sempre piu' brutto: orecchie a sventola, come suo padre e come suo padre la stessa bocca perennemente tesa in una smorfia di mezzaluna con le punte verso terra, capelli castano chiari irrilevanti come queli di Marta, scarsamente attento e molto, molto piagnucoloso. Nacque il secondo, tre anni dopo, anche lui voluto e cercato al punto che arrivammo a fare l'amore fino a due volte la settimana, sinceramente con meno passione, concentrandoci sulla meta di ritrovare Marta incinta di una seconda creatura, che non riusci' certamente meglio della prima. Altro maschio, gemello del primo. Marcello. Quando due anni dopo nacque Linda, eravamo preoccupati: io non ne volevo piu', poiche' capivo segretamente che a noi venivano male, lei esplicitamente perche' i primi due la impegnavano gia' oltre ogni umana comprensione. Fu procreata grazie alla meravigliosa intuizione di un tale che si chiamava Ogino. Quando nacque la guardammo stupiti: era bellissima. Continuo' senza peggioramenti estetici il suo cammino nel tempo, sveglia attenta curiosa con i suoi occhioni neri che scrutavano il mondo. Troppo bella. Al bar allora gli ammiccamenti si sprecarono, alludendo a fornai, postini, idraulici improbabili. Mi toccava sorridere fingendo di divertirmi a battute che non tolleravo, che bruciavano dentro e seminavano il seme del dubbio. Accettavo pero' la farsa, poiche' sentivo in questo modo di appartenere, di fare parte di quel gruppo di persone. Ero arrivato al punto di provocarli, di suggerire le battute piu' comiche e di riderci quasi di gusto. Quando la sera rientravo, percorrendo i cento metri che conducevano a casa, mi sentivo un verme pensando alla mia Marta, ignara vittima inconsapevole di quelle persone e di me, imbecille complice che ripeteva ogni sera che sarebbe stata l'ultima volta, domani al Mario glielo dico vaffanculo te e tua moglie, quella troia , e gli avrei spaccato la faccia con un pugno alla Rocky uno. Ogni sera invece, incrociando Mario, sorridevo ed aspettavo la battuta, oppure ero io che, ispirato, mi producevo in frasi ironiche circa le attivita' di Marta durante le mie assenze. In fondo fu la strategia giusta: pochi mesi dopo smisero, smisero quando il repertorio si esauri', quando tutti i colpi furono sparati e di pallottole col mio nome inciso non ce n'erano piu'. Al compimento del mio quarantacinquesimo compleanno mi regalarono Stella. Rimasi un po' male, perche' non ci fu nessun pacchetto da scartare, solo aveva un orrendo nastro rosso fermato sul pelo della testa, al centro delle orecchie, con due punti di cucitrice. *Bau*, mi disse, squadrandomi con il capino reclinato su di un lato e le orecchie penzolanti verso gli occhi. Capii che si chiamava Stella perche' come i carcerati aveva un cartello appeso al collo con scritto il nome. Una specie di foto segnaletica con le pulci. Da allora questa e' la sua prigione, ha gia' scontato dodici anni senza condizionale, godendo solo dell'ora d'aria che io le regalo ogni domenica mattina da dodici anni a questa parte. Voglio bene a Stella. Mi capisce, mi ascolta per ore senza interrompermi, al massimo un piccolo guaito interrogativo con quella faccina comprensiva sempre reclinata su un lato. E' lei che ogni sera mi aspetta sulla soglia di casa per darmi il benvenuto ed e' lei che ogni mattina mi sveglia con precise lappate sul naso. Gli altri quattro scalmanati non sanno neppure piu' che esisto, sono semplicemente uno stipendio, un sussidio alla loro disoccupazione atavica. Si', ho detto quattro, Marta compresa. Dalla nascita di Osvaldo non ha piu' lavorato, mamma a tempo pieno con i capelli spettinati ed il grembiule da massaia come seconda pelle. Da cinque lunghi anni non danza piu' su di me, stancamente mi arrampico una volta alla settimana sulle sue cime oramai divenute enormi e stanziali per produrmi in una rapida danza altalenante, senza fare rumore e senza piu' sudore sotto le ascelle, che lavo accuratamente ogni sera perche' non lo tollera piu'. Non tollera piu' nulla di me, ecco la verita'. E' come vivere in trincea con i fucili dei cecchini puntati addosso, non spariamo solo per la paura che l'altro abbia piu' colpi, gas nervino, bombe nucleari. Ogni settimana compro a Stella un osso finto, una palla rossa di plastica che il cartolaio serba ogni settimana solo per me, una palla che Stella ora stenta ad inseguire, perche' gli anni per lei sono passati in fretta. La domenica ai giardini sta diventando una faticaccia: tiro la palla, incito Stella, vado a recuperarla, la rilancio... lei mi guarda stranita e stanca con quel suo testolino ingrigito sempre reclinato. Alle volte penso non sia curiosa, penso che quel pencolare del capo sia scoliosi. Cagnolina mia, ti voglio bene, credimi. Sei probabilmente la sola *persona * alla quale io voglia bene, in mezzo a tutta questa *gente*. Siamo in Agosto, l'agosto numero cinquantasette della mia vita, il primo anno di ferie vacanziere da trenta a questa parte. Marta, Osvaldo, Marcello e Linda hanno deciso che saremmo andati al mare, nel ferrarese. Vabbe'... zanzare, paludi, ferraresi... Mi tocca andarci, Stella, capisci? E dove ti metto? Hanno deciso loro. Da sempre decidono loro. Anche questa volta. Hanno commutato in condanna a morte la tua pena, ora capisco che hai vissuto questi dodici lunghi anni in attesa dell'esecuzione. Niente grazia, niente assoluzione. Abbandonarti. Abbandonarti, cazzo !!! Ti immagino, ora, guardarmi con quegli occhi velati dall'eta' sdraiati su un muso mancino mentre guardi l'auto che si allontana con cinque boia all'interno, chiedendoti che nuovo gioco sia mai questo, dato che non e' neppure domenica mattina. Ti vedo voltarti, sconsolata... riesco persino ad immaginare una lacrima scivolare fino a terra impoverita dallo scorrere sul pelo , conscia della verita'. Ti riconosco tradita, tradita dall'unica persona che hai amato ed aspettato ogni sera sull'uscio di casa, la sola persona che hai pazientemente portato ai giardini a giocare, e gli hai insegnato bene perche' se prima la palla gliela dovevi riportare tu, ora da solo fa' tutto, mentre paziente lo guardi ed aspetti l'ora di riportarlo a casa, finita la messa dell'altra gente." Un onesto padre di famiglia, quella notte, stacchera' silenziosamente il tubo del gas dalla cucina economica, fuggendo furtivamente su di una utilitaria bianca con un cane a bordo. Pardon, una cagna. Ed una persona.